Storytelling-centrico vs Strategy-driven: due visioni di personal branding

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Quando si parla di personal branding strategico, spesso ci si muove tra due visioni molto diverse.

Da un lato c’è l’approccio storytelling-centrico, che mette al centro il racconto personale: la difficoltà incontrata, la trasformazione vissuta, la lezione imparata. È una narrazione immediata, empatica e universale, capace di creare connessione emotiva e abbattere le distanze.

Dall’altro lato troviamo l’approccio strategy-driven, che non si limita a raccontare ma costruisce un percorso: identità professionale, obiettivi, target, proposta di valore. In questo caso, lo storytelling diventa uno strumento, inserito in una cornice più ampia che lega la comunicazione ai risultati, al posizionamento e alla reputazione nel tempo.

Storytelling e strategia: due approcci diversi allo stesso obiettivo

Lo storytelling-centrico ha il pregio di ispirare, ma sul lungo periodo rischia di restare in superficie: troppo personale, a volte autoreferenziale, e poco efficace quando si parla con manager, CEO o professionisti B2B che cercano dati, credibilità e solidità.

Lo strategy-driven, al contrario, porta coerenza e metodo.È un approccio che restituisce autorevolezza e affidabilità, soprattutto nei contesti executive o aziendali, dove la percezione conta quanto le competenze. Ma anche qui esiste un rischio: una strategia senza racconto diventa fredda. Senza la componente umana, la comunicazione perde calore e connessione emotiva.

Punti di forza e limiti

Ogni visione di personal branding porta con sé vantaggi evidenti e zone d’ombra. Lo storytelling-centrico ha un grande merito, ovvero rende umana la comunicazione. Chi racconta una difficoltà superata o un percorso di trasformazione trasmette vicinanza, vulnerabilità, autenticità.

Oggi siamo alle prese con un contesto saturo di messaggi standardizzati, e questa immediatezza emozionale può essere un vantaggio competitivo. Ma c’è un limite: quando il racconto diventa fine a sé stesso. Se manca un legame con un obiettivo professionale o con un posizionamento definito, la storia rischia di trasformarsi in intrattenimento motivazionale.

Piacevole da leggere, ma poco rilevante per chi deve decidere se investire in una collaborazione o affidarti un incarico.

Lo strategy-driven, al contrario, ha il pregio della solidità e della coerenza. Non si lascia sedurre dall’aneddoto isolato, ma lavora su obiettivi, coerenza cross-channel, reputazione costruita nel tempo.

È un approccio che restituisce autorevolezza, soprattutto nei contesti B2B e executive, dove la percezione di affidabilità pesa tanto quanto le competenze. Il rischio? La strategia senza racconto può apparire algida, distante, impersonale. Quando manca l’elemento umano, la comunicazione si riduce a schemi e obiettivi che non generano coinvolgimento emotivo. E senza coinvolgimento, la memoria del messaggio si affievolisce.

Quando uno supera l’altro

L’obiettivo non è scegliere quale approccio sia “migliore”, ma comprendere quando e per chi ciascuno risulta più efficace.

1. Fasi iniziali del percorso

Qui lo storytelling ha la meglio. Serve un gancio rapido, una storia che cattura l’attenzione e rende memorabile. Nelle prime fasi non è ancora necessario un impianto strategico complesso: basta dimostrare che “c’è una storia che vale la pena ascoltare”.

2. Consolidamento del brand

Quando il personal brand cresce, il racconto da solo non basta più. Serve la strategia per costruire autorevolezza: obiettivi chiari, piano editoriale coerente, posizionamento definito.
Senza questa struttura, la narrazione rischia di ripetersi senza evoluzione.

3. Contesti executive e B2B

In questi ambienti la strategia vince sulla pura narrazione. Non si tratta più solo di emozionare, ma di produrre capitale reputazionale, fiducia, credibilità, riconoscibilità. La storia personale diventa parte della strategia, non il contrario.

4. Comunicazione a lungo termine

Il valore reale nasce dall’integrazione: storytelling + strategia. La storia accende l’interesse, la strategia lo alimenta e lo orienta verso obiettivi concreti. Senza questa unione, il personal branding rischia di spegnersi (se c’è solo metodo) o di bruciare troppo in fretta (se c’è solo emozione).

Verso un personal branding maturo

A ben guardare la contrapposizione tra storytelling e strategia è solo apparente; nessuno dei due approcci basta da solo. Lo storytelling-centrico cattura l’attenzione ma rischia di disperderla se non ha delle fondamenta ben solide; lo strategy-driven costruisce solidità ma perde efficacia se dimentica il calore della narrazione.

Pertanto, un personal brand maturo non può scegliere tra emozione e metodo; piuttosto sa orchestrare entrambi, trasformando la storia in uno strumento e la strategia in una direzione.

Un equilibrio che mette nelle condizioni un professionista di passare dall’essere riconosciuto per un episodio ispirazionale all’essere ricordato per un posizionamento autorevole e duraturo.

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Sono Valentina Gherardi e mi occupo di consulenza strategica in Personal Branding per imprenditori, CEO e figure apicali.

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