Il grande mito dell’empatia: non serve a tutti, non serve sempre.

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In questi ultimi anni, attorno al concetto di empatia, si è generata una vera e propria fissazione. Una sorta di tratto imprescindibile che tutti sembrano voler rivendicare come proprio.

La trovi nei CV, nei discorsi, nelle bio sui social… praticamente viene sbandierata come un valore essenziale, un segno distintivo di questo strano tempo che stiamo vivendo.

Ma più osservo questo fenomeno, più mi rendo conto che, spesso, chi proclama a gran voce questa caratteristica è tutto fuorché empatico.

Dal punto di vista psicologico, l’empatia è la capacità di comprendere e condividere le emozioni altrui, di mettersi nei panni dell’altro.

Definizione che sembra però essersi trasformata in un mera etichetta da esibire, svuotata del suo significato più profondo per andare ad allungare la lunga lista delle buzzwords che vediamo in circolazione.

Ho avuto modo di sperimentarlo di recente con un cliente che, nel suo curriculum, teneva particolarmente a sottolineare quanto fosse empatico e in grado di entrare in relazione con le persone.

Peccato che durante le nostre sessioni, la realtà era ben diversa: educato, sì, ma privo di quell’ascolto profondo, di quel talento di entrare davvero in contatto con l’altro.

Un esempio paradigmatico di come questa capacità sia diventata più uno strumento di marketing personale, e lo dico con non poca amarezza, che una reale competenza relazionale.

Un’ossessione che nasce probabilmente da un fraintendimento: l’empatia non è essere gentili o cortesi, e nemmeno una competenza che si può dichiarare con leggerezza. È una capacità che si manifesta nei fatti e non sempre è necessaria o utile.

Prendo un caso emblematico: un chirurgo durante un intervento complesso.

In questo contesto, l’empatia può diventare un ostacolo. Serve invece lucidità, distacco, capacità di valutazione razionale. Un medico deve essere concentrato sull’intervento, non sopraffatto dalle emozioni.

Lo stesso discorso vale, ad esempio, per un operatore del servizio clienti che contattiamo perché abbiamo ricevuto una bolletta stratosferica.

In questo caso, non cerchiamo empatia, ma piuttosto una soluzione.

Non vogliamo che l’operatore si immerga nelle nostre emozioni, ma che, come referente dell’azienda, si concentri sul risolvere il nostro problema nel modo più efficace possibile.

Lo psicologo Paul Bloom nel suo libro Against Empathy, afferma che l’eccesso di empatia può essere fuorviante e portare a decisioni irrazionali.

Bloom sostiene che, in molte situazioni, più che un’empatia emotiva, serva un approccio razionale e compassionevole, capace di considerare le conseguenze delle proprie scelte senza esserne travolti emotivamente.

Per essere buoni professionisti non serve per forza essere empatici: meglio un professionista onesto e consapevole del proprio ruolo che uno che finge un’empatia di facciata.

Forse è arrivato il momento di smettere di raccontarci favole e iniziare a guardare la realtà per quella che è.

Non dobbiamo essere tutti empatici a ogni costo. Dobbiamo essere, piuttosto, semplicemente umani, con tutte le nostre complessità e contraddizioni.

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Sono Valentina Gherardi e mi occupo di Strategia Personal Branding: metto in luce la tua identità professionale, definisco messaggio, strategia, e percorso operarivo per farti acquisire autorevolezza e giusto posizionamento nel tuo settore. Se vuoi entrare in contatto con me, scrivimi quì!

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